Mentre speriamo che le ricerche e i soccorsi portino al salvataggio del maggior numero possibile di persone, vi segnaliamo due realtà che stanno dando una prima risposta all’emergenza e che cercano di far arrivare gli aiuti anche dove è più difficile, come in Siria. Una è l’ong Avsi (qui si può donare) e l’altra è Pro Terra Sancta (qui per donare, in particolare, a favore delle popolazioni di Aleppo). Nel resto del focus attualità di oggi proviamo a ipotizzare quali conseguenze politiche possa avere questa tragedia, in particolare per la Turchia e il suo presidente.
Recep Tayyip Erdoğan ha dichiarato almeno tre mesi di stato di emergenza in 10 province turche (il massimo previsto dalla Costituzione turca è di 6 mesi per gli eventi naturali) e si è recato nelle zone colpite dal sisma. Nell’annunciare lo stato di emergenza il presidente turco ha anche dichiarato che sta prendendo nota di tutte le falsità che vengono fatte circolare sulle operazioni di soccorso. Quando sarà il momento, ha affermato in tono minaccioso, questo blocco degli appunti verrà aperto. Viste le circostanze, la decisione di applicare lo stato di emergenza è naturalmente condivisibile. Le conseguenze di questa decisione andranno però valutate con cura. Alcuni osservatori hanno ricordato infatti che nel 2016, dopo il fallito golpe, Erdoğan decretò tre mesi di stato di emergenza, che però venne poi prolungato per due anni. La legislazione speciale che si applica a periodi come questo gli permise di purgare buona parte dei suoi oppositori a livello politico, giudiziario e intellettuale. Se consideriamo che lo stato di emergenza appena decretato si estenderà almeno fino a ridosso delle elezioni di maggio (sempre che si tengano nella data annunciata), il precedente non può che destare ulteriore preoccupazione.
Il leader dell’Akp dovrà gestire efficacemente la macchina dei soccorsi e delle prime ricostruzioni, pena il rischio di vedersi punire dagli elettori, proprio mentre si avvicina la competizione elettorale che già prima del terremoto era ritenuta la più incerta degli ultimi anni. Ma potrebbe essere vero anche il contrario: una gestione efficace della risposta all’emergenza potrebbe rafforzare la posizione di Erdoğan e favorire un senso di solidarietà nazionale e l’aggregazione intorno alla leadership del presidente.
Tuttavia, già in questi giorni emerge un primo, importante, dato politico relativo agli edifici, alcuni costruiti anche solo un anno fa, che si sono sbriciolati per effetto del sisma. Secondo molti, tra cui, Kishor Jaiswal (US Geological Survey) era noto da tempo che numerosi palazzi della zona interessata dal terremoto non fossero stati progettati nel rispetto dei requisiti ingegneristici richiesti quando si costruiscono case e infrastrutture in una zona ad alto rischio sismico. Della stessa idea il ricercatore Roger Musson, interpellato dal Japan Times, secondo il quale le costruzioni turche non erano «adeguate a un’area suscettibile di grandi terremoti» (come ha ricordato Ishaan Tharoor sul Washington Post la storia dell’intera regione è punteggiata da diverse catastrofi, con le prime testimonianze di violenti terremoti che risalgono al tempo degli Ittiti e delle città-stato della Mesopotamia). Il punto, sottolineato tra gli altri da Alexander Clarkson (King’s College), è che molti di questi edifici «sono stati eretti durante il boom edilizio nei decenni successivi al terremoto del 1999», che provocò oltre 17 mila morti. È importante osservare, come ha fatto Clarkson, che «la base di potere e la struttura clientelare dell’Akp è pesantemente intrecciata con il settore edile». Quando la Turchia fu colpita dal terremoto del 1999 la colpa dell’elevato numero di morti venne attribuita «agli appaltatori che usarono materiali scadenti, ai funzionari che non fecero rispettare i blandi codici in materia di costruzioni e, naturalmente, al governo di allora, che non riuscì a produrre una strategia di risposta nazionale », ha scritto sul Washington Post Asli Aydintasbas. Furono proprio la rabbia per questa gestione e il desiderio di cambiamento che ne conseguì a dare avvio alla parabola dell’Akp, un partito che ha fatto degli investimenti in infrastrutture un punto centrale del programma di governo.
Da allora la Turchia ha dovuto aspettare fino al 2018 per l’approvazione di una legislazione specifica sulle costruzioni in aree sismiche, che però secondo Aydintasbas è stata largamente ignorata. Il mantra ripetuto dai sismologi è che non sono i terremoti a uccidere, ma gli edifici. È perciò evidente, e normale, che le attenzioni si concentrino su chi ha costruito, e come, le migliaia di edifici crollati. È proprio qui che cominciano le note dolenti per le autorità turche. Secondo un’inchiesta pubblicata dalla BBC sono crollati anche edifici costruiti solo un anno fa, la cui vendita veniva pubblicizzata con cartelli che indicavano la resistenza agli eventi sismici. Al dolore per la perdita di vite umane si aggiunge un elemento psicologico che è stato descritto bene da Monica Marks (New York University – Abu Dhabi): in Turchia tutti sanno che il rischio di terremoti di grossa entità è costante, ma ora è evidente che «non importa quanto si è selettivi nella scelta del proprio appartamento». C’era la speranza che abitare in un edificio costruito dopo il terremoto del ’99 fosse una discreta garanzia di farsi trovare pronti qualora arrivasse “the big one”. Molti, spiega Marks, «non si sono spostati in questi edifici più recenti, o perché non si trovano nel centro di Istanbul, oppure semplicemente perché non possono permetterselo. Ma tutti apprezzavamo la rassicurazione psicologica» di poter un giorno essere al riparo dai terremoti. Non è così: «sostanzialmente siamo senza potere di fronte al fato», ha concluso Marks.
Ma perché, nonostante le legislazioni apposite, così tanti edifici sono crollati? Una parte del problema riguarda naturalmente gli immobili costruiti prima del sisma del 1999. Ma a questo si aggiungono i numerosi condoni edilizi (l’ultimo nel 2018) approvati dal governo turco per legalizzare i casi di costruzioni recenti che non rispettavano gli standard previsti per legge (sounds familiar?!). Secondo la BBC nella zona colpita dal terremoto sono 75.000 gli edifici che hanno beneficiato di questi condoni e proprio pochi giorni prima della catastrofe i media turchi avevano annunciato l’imminente ufficializzazione di un nuovo condono.
Il terremoto ha effetti devastanti anche perché è vero, come ha notato Zvi Bar’el su Haaretz, che la Turchia oggi è molto più preparata alla gestione delle emergenze di quanto lo fosse in occasione del terremoto del 1999, ma è altrettanto vero che la maggior parte delle risorse (economiche e organizzative) sono state indirizzate nelle zone settentrionali del Paese, a scapito di città come Gaziantep, Kahramanmaras, Diyarbakir. In queste aree, che peraltro ospitano più di mezzo milione di profughi siriani, il numero di ospedali e team medici è estremamente inferiore a quello del nord della Turchia. Inoltre «alcune città non hanno ambulanze e attrezzature di soccorso». Così, le critiche per la gestione dei soccorsi si sono sommate a quelle per gli scarsi standard qualitativi delle costruzioni. La reazione delle autorità turche è stata fulminea e ha portato alla limitazione all’accesso a Twitter in Turchia.
Non si tratta però soltanto di ignorare le leggi sulle norme edilizie: una parte delle critiche che pian piano emergono sono rivolte alle scelte e alle priorità del governo dell’Akp. Emblematico è il caso del budget riservato all’AFAD (grossomodo l’equivalente della nostra protezione civile), sceso da 2,85 miliardi di lire turche nel 2021 a 2,3 miliardi di lire del 2023. Al contrario il budget riservato al Direttorato per gli affari religiosi (Diyanet) è cresciuto da 12,9 miliardi di lire nel 2021 agli attuali 35,9 miliardi. Come ha notato Hetav Rojan questi dati indicano qual è la priorità politica del governo turco.
C’è poi da comprendere se le elezioni effettivamente si terranno e se materialmente sarà possibile allestire i seggi nelle zone colpite dal sisma. Il punto però è capire se lo svolgimento delle elezioni nel periodo prestabilito sarà considerato da Erdoğan come un vantaggio o meno. In caso negativo, è probabile l’estensione dello stato di emergenza e il conseguente rinvio delle consultazioni elettorali.
A livello internazionale, il pragmatismo che secondo Amberin Zaman contraddistingue Erdoğan ha portato il presidente turco ad accettare immediatamente aiuti dall’estero, inclusi quelli provenienti da rivali come Israele e, soprattutto, dalla Grecia.
Oltre a Gaziantep (dove è crollato anche il castello costruito tra il II e il III secolo dall’Impero Romano), tra le zone più colpite c’è la città di Aleppo in Siria e la zona di Iblib, ultima sacca della ribellione anti-Assad. Nelle zone sotto il controllo del governo di Damasco hanno iniziato immediatamente ad affluire i soccorsi e gli aiuti, che sono però complicati dalle sanzioni cui la Siria è sottoposta. Proprio su questo tema si è sviluppato un dibattito. Secondo alcuni sarebbero le sanzioni a impedire i soccorsi alle popolazioni terremotate, mentre altri puntano il dito contro il regime di Assad. Il Wall Street Journal ha riportato una nota dell’ufficio stampa del Dipartimento di Stato americano, che specifica come il regime sanzionatorio preveda delle esenzioni per gli interventi umanitari. Interpellato dall’Associated Press, il ricercatore svedese Aron Lund ha spiegato però che queste deroghe funzionano soltanto in teoria, perché «le banche potrebbero bloccare dei trasferimenti di denaro per pagare fornitori o personale locale delle organizzazioni di soccorso per paura di violare le sanzioni». La questione ha un importante risvolto politico, perché Assad sta evidentemente cercando di cogliere l’“opportunità” del terremoto per ottenere il reintegro nel sistema internazionale, a partire dalle relazioni con i Paesi arabi. A questo proposito, sempre sul Wall Street Journal, il politologo emiratino Abdulkhaleq Abdulla ha previsto che la «diplomazia degli aiuti aprirà la strada alla diplomazia politica». Un discorso a parte va fatto per la situazione a Idlib, un’area che viveva una situazione catastrofica già prima del terremoto perché costantemente bersagliata dalle forze governative siriane e dai loro alleati russi. Come riferito da Middle East Eye, Assad avrebbe infierito bombardando la zona poche ore dopo il terremoto. Far arrivare qui gli aiuti è diventato ancora più difficile, perché subito dopo il sisma la Turchia ha chiuso il varco di frontiera di Bab al-Hawa, l’unico sul quale potevano transitare i rifornimenti umanitari, e solo un convoglio di aiuti delle Nazioni Unite è riuscito a raggiungere l’area. Come affermato da Sharvan Ibesh, direttore dell’organizzazione umanitaria turca Bahar, finora, quando a Idlib le cose si mettevano male potevano arrivare aiuti dal confine turco. Ora invece oltre confine la situazione è persino peggiore.
Analisi di Claudio Fontana – tratta da Fondazione Internazionale Oasis